La guerra fra consulenti
Articolo di IT Forum News
La guerra fra consulenti
Salvatore Gaziano Strategist SoldiExpert.com
giovedì 8 giugno 2017
E’ in corso un “braccio di ferro” tra consulenti finanziari indipendenti e non, dopo che il governo ha approvato un articolo che rende più facile lo svolgimento della consulenza finanziaria autonoma anche fuori sede. Una rivoluzione che tuttavia non piace alle potenti lobby bancarie, che vedono la loro supremazia nelle relazioni con i risparmiatori in forte pericolo.
Era il 2007 quando in Gran Bretagna il ministero del Tesoro avviò un progetto gratuito finalizzato ad accrescere la conoscenza in campo finanziario dei sudditi di Sua Maestà e, qualche anno dopo (nel 2013) a Londra s’imboccò senza tentennamenti la strada della consulenza finanziaria pura con il divieto da parte degli intermediari bancari o parabancari di incassare retrocessioni o commissioni sui prodotti collocati ai risparmiatori.
In Italia è dal 2007, con l’introduzione della Mifid (la direttiva comunitaria in materia di mercati degli strumenti finanziari) che il Parlamento italiano discute (si fa per dire) su come regolamentare l’attività di consulenza finanziaria su base indipendente e regolare il settore. E non stupirà sapere che il modello scelto in Italia continua a essere quasi totalmente “bancocentrico”, e che in 10 anni la regolamentazione della consulenza finanziaria indipendente pura all’anglosassone non ha ancora visto la luce mentre le banche e le reti di vendita si sono impadronite pure del termine “consulente finanziario” per ribattezzare in modo più sexy i propri promotori.
Troppi gli interessi sul settore e i miliardi di euro che girano con l’attuale sistema e le banche italiane e reti di vendita a disperata ricerca di profitti non certo possono consentire che il “giocattolo” venga rotto o modificato.
Non c’è d’altra parte piano industriale di nessuna banca o di società di gestione del risparmio che non punti forte sulla crescita delle commissioni e sull’asset management e qualsiasi mutamento dello status quo viene visto dal sistema delle banche italiane o delle reti di vendita come qualcosa di potenzialmente pericoloso ed eversivo.
Forse è per questo che l’introduzione ad aprile di un nuovo articolo (il 30bis) al Decreto legislativo di attuazione della Direttiva MiFID da parte del governo Gentiloni che consentirebbe di promuovere e svolgere la consulenza anche fuori sede da parte dei consulenti autonomi e delle società di consulenza finanziaria sta scatenando in queste settimane un vero putiferio con associazioni come Assoreti (l’associazione delle banche e delle imprese di investimento che prestano il servizio di consulenza in materia di investimenti) per bocca del presidente Matteo Colafrancesco o la Fabi (l’associazione dei bancari) sul piede di guerra contro questa norma.
Perché? Un breve ripasso per comprendere chi può vendere la consulenza finanziaria è d’obbligo per cercare di capire la questione e visto che siamo in Italia e non in Gran Bretagna.
I promotori finanziari hanno assunto da qualche mese col disco verde della Consob la denominazione di consulenti finanziari abilitati all’offerta fuori sede al posto di quella di “promotore finanziario”. Sono la figura più diffusa in Italia nel collocamento di prodotti e servizi d’investimento e possono essere remunerati col vecchio, proficuo e collaudato sistema delle retrocessioni (il sistema più diffuso e che costituisce quasi il 90% del fatturato) ma anche offrire consulenza a parcella su base indipendente. Ma sempre con un rapporto di mandato da parte della banca o della società di gestione (sim o sgr) con cui operano come un agente di vendita monomandatario. Si tratta quindi nel caso della figura dell’ex promotore finanziario di un soggetto abilitato anche al di fuori della sede (ovvero che può andare a casa del cliente e fare firmare contratti) alla raccolta del denaro e al collocamento di prodotti e servizi di investimento della società mandante.
Il “consulente finanziario abilitato all’offerta fuori sede” non presta quindi direttamente il servizio stesso, ma solo attraverso la società mandante per la quale deve vendere prodotti finanziari o servizi di consulenza. Le banche italiane piccoli e grandi e i principali operatori del settore (da Mediolanum a Banca Generali) operano secondo questo modello.
La normativa italiana prevede poi il “consulente finanziario autonomo” (consulente finanziario indipendente) o le Società di Consulenza Finanziarie (SCF) che possono prestare il servizio di consulenza pura ovvero fornire raccomandazioni personalizzate alla clientela e farsi pagare solo a parcella (“fee only” dicono gli inglesi) ma non possono assolutamente detenere o raccogliere i soldi da parte della clientela o farsi ristornare commissioni di qualsiasi tipo delle società prodotti di fondi o dalle banche. Nei Paesi anglosassoni è questa la figura su cui si è maggiormente puntato per assicurare una consulenza il più possibile indipendente, trasparente e meno costosa per il risparmiatore. Ma non in Italia.
L’articolo di legge introdotto ad aprile in commissione dal governo ha previsto però anche per questi soggetti la possibilità di promuovere e svolgere il servizio di consulenza in materia di investimenti anche in luogo diverso del proprio domicilio legale, ovvero di fare offerta fuori sede. Un’apertura che ha fatto andare su tutte le furie le associazioni del settore di matrice bancaria come Assoreti o la Fabi (Federazione Autonoma Bancari Italiani) che richiedono di cancellare questo emendamento.
“Esprimiamo tutta la nostra perplessità e contrarietà poiché una simile norma consente a chiunque, anche a professionisti esterni al settore bancario e delle reti, di effettuare servizi di consulenza finanziaria fuori sede - ha tuonato Giuseppe Milazzo, Segretario nazionale con delega ai promotori finanziari della FABI, sindacato di maggioranza del settore del credito - Il provvedimento esporrà i 55mila consulenti finanziari alla concorrenza selvaggia di professionisti non riconducibili ad alcun intermediario finanziario e a pagarne lo scotto saranno soprattutto i clienti, che in caso d’illeciti non potranno nemmeno più rivalersi sulle banche, ma dovranno fare i conti con piccole società o consulenti autonomi che non hanno alle spalle grandi aziende”, Questo il pensiero espresso da Fabi e Assoreti (che rappresenta società come Banca Generali e Mediolanum, Fineco e Fideuram, Finanza & Futuro e Allianz)
Di tutt’altro avviso quella dell’associazione più importante per la consulenza finanziaria indipendente, Ascosim, in cui il presidente Massimo Scolari cerca di smorzare i toni: “questa misura colma un vuoto normativo che in precedenza ostacolava in Italia lo sviluppo delle attività dei consulenti indipendenti e delle società di consulenza e garantisce un livellamento del campo di gioco tra i diversi attori della consulenza finanziaria”.Va ricordato che i consulenti finanziari autonomi (ovvero gli indipendenti) e le SCF si limitano ad offrire un servizio di consulenza finanziaria e ad essi è preclusa la promozione e la distribuzione di prodotti finanziari. Gli indipendenti poi dovranno avere determinati requisiti, sottoporsi ad esami e sottostare a stringenti controlli di un’autorità preposta, che gestirà uno specifico albo. E come riconosciuto dalla stessa direttiva MiFID, si tratta di un’attività connotata da una minore rischiosità sistemica”.
Il consulente finanziario autonomo in effetti non può fare raccolta e non si comprende bene qual è la vera ragione di questa guerra se non quella, secondo alcuni operatori del settore, che le grandi reti temono soprattutto non tanto i consulenti finanziari autonomi o le SCF (una realtà in Italia ancora piccola mentre all’estero in Paesi finanziariamente evoluti rappresentano la quota più significativa del mercato) ma che questa norma potrebbe più facilmente rendere facile la vita ai promotori finanziari con ricchi portafogli clienti di “svincolarsi” dalle attuali reti per diventare più facilmente consulenti finanziari autonomi.
E proporre alla clientela in portafoglio magari una consulenza meno costosa ma che non farebbe entrare quasi un cent nelle casse delle banche e delle reti distributive che oggi incassano invece mediamente l’’80% delle commissioni di gestione. Un vero affare miliardario.
E da questo punto di vista è forse più facilmente comprensibile la motivazione del perché alle reti bancarie e parabancarie e che fanno soprattutto raccolta fuori sede, questa norma non piace in nessun modo e stanno facendo leva sul governo, bussando ad ogni porta, per cercare di modificare il decreto, a tutto svantaggio dei consulenti indipendenti. Chi vincerà?